In Italia ci sono tanti «volontariati», al plurale, perché quello del volontariato è un fenomeno composito, in cui sono presenti diverse tipologie di associazioni, regolate da norme diverse che talvolta, come nel caso della legge n. 266/1991, non rispecchiano i cambiamenti intervenuti nel mondo del volontariato stesso, nella sua posizione e nel suo ruolo nella società italiana nel corso degli ultimi anni. Non tengono conto, per esempio, delle reti di volontariato nazionali, che pure rappresentano ormai una realtà di grande rilievo.
Il limite delle norme sul volontariato
Ma il motivo per cui la normativa sul volontariato non è più adeguata a disciplinare tale fenomeno è un motivo di fondo, che si può sintetizzare in un unico punto teorico fondamentale. Questa normativa considera il volontariato rimanendo all’interno dell’orizzonte teorico e pratico delineato dal tradizionale paradigma bipolare, secondo il quale il perseguimento dell’interesse generale spetta unicamente ai soggetti pubblici, i privati essendo dei meri amministrati, dediti essenzialmente al perseguimento dei propri (ovviamente legittimi) interessi personali.
Sulla base di questo schema teorico, che risale alla nascita dello Stato a diritto amministrativo, i cittadini-volontari sono cittadini che fanno qualcosa che normalmente i cittadini non dovrebbero fare, in quanto non spetta a loro occuparsi di questioni attinenti all’interesse generale.
Questa impostazione di fondo, di sostanziale diffidenza nei confronti dell’attivismo civico, spiega perché per esempio la legge n. 266/1991 abbia introdotto un complicato, farraginoso e sostanzialmente inefficace sistema di controlli che da un lato consentono ai soggetti pubblici di selezionare con una certa dose di discrezionalità le associazioni ammesse a godere dei vantaggi derivanti dal rapporto con la pubblica amministrazione. Dall’altro incidono in maniera molto significativa sulla stessa libertà di associazione (pur costituzionalmente garantita dall’articolo 18 della Costituzione), obbligando le associazioni a conformare strettamente la propria struttura organizzativa ai requisiti imposti da amministrazioni spesso totalmente estranee allo spirito ed agli obiettivi del volontariato, pena l’esclusione dai vantaggi derivanti dal rapporto con l’amministrazione.
In tal modo, fra l’altro, nel variegato mondo del volontariato la legge finisce con il privilegiare le associazioni più strutturate e specializzate, a danno di quelle più piccole, organizzate in maniera informale e con un campo territoriale di azione più limitato.
Due prospettive opposte
Da un lato, dunque, abbiamo una legge (che pure all’epoca rappresentò un grande passo avanti per il mondo del volontariato ed il suo riconoscimento) che prevede la messa sotto tutela e l’inquadramento burocratico del volontariato, con stringenti richieste di garanzie sul piano organizzativo ed operativo per poter essere partner della pubblica amministrazione.
Dall’altro, invece, abbiamo la grande apertura della Costituzione, che dieci anni dopo la legge n. 266/1991, introducendo all’articolo 118, ultimo comma il principio di sussidiarietà riconosce finalmente che i cittadini non soltanto sono portatori di capacità e risorse ma, soprattutto, riconosce che in totale autonomia essi possono decidere di utilizzarle non solo nel proprio ma anche nell’interesse generale. Il punto cruciale è che se la Costituzione afferma che i poteri pubblici debbono favorire «le autonome iniziative dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale», ciò significa riconoscere che tali attività si legittimano da sole, non dovrebbero aver bisogno di ulteriori autorizzazioni per esplicarsi.
E’ una logica opposta e contraria a quella che la legge n. 266/1991 ha imposto al volontariato, la logica della sussidiarietà contrapposta a quella del paradigma bipolare, la logica della fiducia e della collaborazione contrapposta a quella della diffidenza e del controllo.
A questo punto sarebbe indispensabile una nuova normativa sul volontariato ispirata non più al vecchio paradigma, bensì al principio di sussidiarietà, riconoscendo che i volontari sono cittadini attivi ai sensi dell’articolo 118 ultimo comma e che in quanto tali sono autonomamente ed a pieno titolo alleati delle amministrazioni nel perseguimento dell’interesse generale.
Non più, dunque, volontari considerati come soggetti che, poiché fuoriescono dal ruolo passivo di amministrati, debbono essere controllati e costretti dentro gli schemi imposti dall’amministrazione, bensì volontari come alleati delle amministrazioni, da sostenere e promuovere nella prospettiva della «sussidiarietà circolare», in cui ciascuno contribuisce con le proprie risorse al perseguimento dell’interesse generale, nel rispetto dei reciproci ruoli e responsabilità.
Oltre l’interesse privato, per l’interesse generale
Perché ciò che connota sia i volontari sia i cittadini attivi è appunto la cura dell’interesse generale, non dei propri interessi o, comunque, non dei propri interessi in via prioritaria. E’ in questo senso che essi rappresentano il nucleo più stretto, più rigoroso, della cittadinanza attiva che la Costituzione riconosce e promuove. I volontari si prendono cura generalmente di persone in condizioni di disagio sociale, personale, economico o di altro genere. I cittadini attivi, applicando il principio di sussidiarietà, si prendono cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono «dis/interessati», in quanto entrambi esercitano una nuova forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non tanto di interessi privati, per quanto assolutamente legittimi, bensì dell’interesse generale.
Quando la Costituzione afferma che i poteri pubblici «favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», essa legittima da un lato i volontari tradizionali, che da sempre svolgono attività che si possono definire di interesse generale, e dall’altro i cittadini attivi, persone responsabili e solidali che si prendono cura dei beni comuni.
Volontari e cittadini attivi, proprio perché formano il nucleo più interno e ristretto della cittadinanza attiva, hanno diversi punti di contatto fra di loro. Innanzitutto, i volontari assistono persone bisognose di aiuto, sebbene costoro non facciano parte del loro nucleo familiare, dimostrando che si può essere solidali anche con coloro a cui non siamo legati da legami di sangue. Mentre infatti è normale, da che mondo è mondo, che si sia solidali fra consanguinei, non è affatto usuale che si sia solidali e partecipi nei confronti di coloro che non fanno parte della propria famiglia. Se fosse normale i volontari non sarebbero (come invece giustamente sono) oggetto di ammirazione e apprezzamento generali.
I cittadini attivi a loro volta si prendono cura di beni di cui non sono proprietari, perché i beni comuni sono beni né pubblici né privati, quindi i diritti di cui possono essere oggetto ai sensi dell’art. 810 Codice Civile non possono essere gli stessi di cui sono oggetto i beni pubblici e quelli privati.
Prendersi cura dei beni comuni
I cittadini attivi, in quanto non proprietari bensì custodi dei beni comuni, esercitano nei confronti di tali beni un diritto di cura fondato non sul proprio interesse, come nel caso del diritto di proprietà, bensì sull’interesse generale. Ciò che giustifica il loro impegno è infatti solo in parte un loro interesse diretto e immediato alla produzione, cura e sviluppo dei beni comuni. C’è anche questo, certamente, ma ciò che spinge i cittadini attivi a prendersi cura dei beni comuni è la solidarietà. In sostanza, i volontari sono «disinteressati» in quanto vanno oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei, i cittadini attivi sono «disinteressati» in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per prendersi cura di beni che sono di tutti. In entrambi i casi, si tratta di un’evoluzione quanto mai positiva della specie umana, che dimostra in tal modo di saper uscire dalla ristretta cerchia familiare e dall’individualismo proprietario per aprirsi al mondo.
In teoria anche le pubbliche amministrazioni dovrebbero essere «disinteressate», dovrebbero cioè agire non nel proprio interesse, bensì nell’interesse detto «pubblico». Un interesse che, per le amministrazioni, è un interesse «altrui». Eppure sappiamo tutti come ormai l’interesse pubblico non sia più percepito, né dalle amministrazioni né dai cittadini, come interesse di tutti, cioè come interesse generale, bensì come interesse delle caste politiche e burocratiche. Sicché alla fine ad occuparsi in maniera veramente disinteressata dell’interesse generale sono i volontari ed i cittadini attivi. La parte migliore di quella che si usa chiamare «società civile».
Gregorio Arena
* Docente di diritto amministrativo – Università di Trento
Articolo pubblicato su Volontariato Oggi n. 2 – 2011. Te l’eri perso? Allora scaricalo o abbonati.